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Quanto ne sappiamo della professione ostetrica?

La

professione ostetrica è associata prevalentemente all’ambiente ospedaliero in riferimento al momento del parto. Invece è una professione – anche libera – che accompagna la donna a riprendere possesso della propria fisiologia oltre la gravidanza.

Abbiamo intervistato la dott.ssa Silvia Puntillo, ostetrica libera professionista, e con lei abbiamo parlato sì di gravidanza, ma anche di violenza ostetrica, di parto in casa, di aborto, menopausa, di stereotipi sulla salute femminile. La dott.ssa Puntillo assiste travagli e parti a domicilio con il gruppo “Roel: ostetriche a domicilio”, un gruppo di ostetriche composto da professioniste calabresi e pugliesi con cui condivide gli ideali ostetrici mettendo al centro dell’assistenza la donna. È tesoriera dell’associazione Dall’Ostetrica, un gruppo di ostetriche che lavorano su tutte le province del territorio calabrese per diffondere le buone pratiche ostetriche tramite: incontri, corsi di formazione e giornate informative. È insegnante di massaggio infantile (AIMI) e di acquaticità per gestanti. Collabora con l’associazione APE Onlus – associazione progetto endometriosi, tenendo incontri informativi nelle scuole della provincia di Cosenza.

Di sé dice: “Svolgo la mia professione accompagnando la Donna in ogni fase della propria vita, credo nella potenzialità del corpo femminile, nella sua capacità di generare salute quando messa nelle condizioni adatte: ascolto, rispetto, sostegno, accoglienza, contenimento e accudimento”.

 

D: Dott.ssa Puntillo, qual è la differenza tra un ostetrica che lavora in ospedale e una libera professionista?

 

R: La differenza sostanziale secondo me è il tempo. All’interno delle strutture non è possibile fare consulenze personalizzate e che prendano il tempo giusto per quella donna. La colpa nella maggior parte dei casi non è del professionista ma dalla mole di lavoro che non è proporzionata al numero di ostetriche e questo si ripercuote sull’assistenza.

 

D: Perché il parto è così medicalizzato?

 

R: Oggi, in Italia, la stragrande maggioranza delle donne, all’inizio della gravidanza, si rivolge a un ginecologo e non ad un’ostetrica che invece è la figura professionale di riferimento come definito dal D.M. 14-09-1994, n. 740. Questo fa si che la gravidanza sia vissuta come una malattia ma sappiamo benissimo dai dati che la maggior parte delle gravidanze non sono patologiche, ovvero: la mamma che il bebè sono in salute. Sicuramente l’avvento della tecnologia ha permesso di ridurre il tasso di mortalità sia dei neonati che delle donne in gravidanza o nel puerperio. Ma spesso questo tenere tutto sotto controllo ha fatto un po’ perdere, nel tempo, la naturalità dell’evento nascita e della gravidanza stessa. Infatti osserviamo un eccesso di analisi, di ecografie, controlli e interventi durante la gravidanza e il parto, e questo può aumentare l’ansia e la relativa produzione continua di ormoni dello stress, che ostacolano il travaglio innescando varie complicazioni. Il parto è molto medicalizzato per far fronte ad ogni possibile evento tragico e l’idea un parto fisiologico possa diventare patologico è opinione comune. Di conseguenza la maggior parte partorisce in un ospedale per “sicurezza”, quello che accade però è che più viene trasmessa l’immagine della gravidanza e del parto, come eventi pericolosi, dolorosi e insopportabili. In questo modo però le donne perdono la fiducia nelle proprie capacità fisiologiche.

 

D: Lei si occupa di parto in casa, ci spiega bene in cosa consiste?

 

R: Il parto in casa rientra tra i possibili luoghi del parto in Italia, come anche la Casa Maternità che è un luogo che ha le caratteristiche abitative di una vera casa. Le norme di sicurezza e gli standard igienicosanitari sono gli stessi di una abitazione. Non è uno studio professionale. Non è una struttura sanitaria e non è all’interno di un ospedale. L’assistenza al parto in casa o in casa maternità è possibile solo per le donne con gravidanza e travaglio fisiologici, questo significa che è necessario intraprendere un percorso di conoscenza e assistenza tra le ostetriche che assisteranno e la donna/coppia coinvolta, questo pone le basi per la selezione delle gravidanze. Una volta stabilito che il travaglio di parto può essere seguito a domicilio inizia la reperibilità a partire dalla 37° settimana di gravidanza fino alla 42°, in queste 5 settimane il bebè può nascere quando lo desidera e le ostetriche garantiranno una reperibilità h24 e 7 giorni su 7. La donna verrà assistita durante: il travaglio, il parto, le due ore del post-partum e nei giorni successivi alla nascita per controllare il benessere di mamma e bebè e favorire l’avvio dell’allattamento.

 

D: Di cosa parliamo esattamente quando sentiamo la frase “questa è violenza ostetrica”?

 

R: Il termine violenza ostetrica si riferisce all’abuso realizzato nell’ambito delle cure ostetrico-ginecologiche e può essere realizzata da tutti gli operatori sanitari che prestano assistenza alla donna e al neonato (ginecolog*, ostetrica o altre figure professionali di supporto). L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) nella Dichiarazione del 30 settembre 2014 afferma che la Violenza Ostetrica rappresenta un grave problema di salute pubblica globale che mette a rischio
il benessere e la salute bio-psico-sociale della madre e del bambino. In Italia si è svolta la campagna social #bastatacere che ha fatto emergere le criticità del nostro territorio nazionale, grazie alle testimonianze delle donne. Al termine della campagna è stato creato l’Osservatorio sulla Violenza Ostetrica in Italia (OVO Italia) con lo scopo di monitorare l’incidenza delle pratiche che costituiscono questo tipo di violenza ai danni delle donne nel loro percorso di maternità.
La “prima ricerca nazionale realizzata dalla Doxa per conto dell’Osservatorio sulla violenza ostetrica in Italia in collaborazione con le associazioni La Goccia Magica e CiaoLapo Onlus denuncia che il 21% delle mamme italiane con figli di 0-14 anni avrebbe subito maltrattamenti fisici o verbali durante il parto nonché azioni lesive della dignità psicofisica.

 

D: La maternità e tutto quello che rappresenta, è sorretto da retorica e costrutti sociali, a mio avviso vere e proprie forme di controllo, ma le chiedo, in base alla sua esperienza professionale, esiste davvero “l’orologio biologico”? Davvero una donna può dirsi completa solo se si avvera nell’esperienza materna?

 

R: Prendo spunto da una frase di Oriana Fallaci: “La maternità non è un dovere morale. Non è nemmeno
un fatto biologico. È una scelta cosciente”. Detto così sembra semplice, ma sappiamo benissimo che non lo è affatto. Nel nostro contesto culturale viviamo nella convinzione che una donna si realizzi solo quando diventa
madre, ma esistono donne che non desiderano figli, esistono donne che non possono averne, esistono
donne che scelgono di mettere a disposizione di altre donne il proprio utero per realizzare il loro desiderio di maternità o donne che adottano ed esistono madri che lo diventano perché “bisogna ndiventarlo”.
Essere madre non è solo avere una creatura che ti cresce in utero, madre può essere colei che si prende
cura di qualcun altro, madre è colei che crea, accoglie e cura aldilà della capacità biologica di procreare.

 

D: Quanto questa idea medicalizzata della maternità, in verità lascia sole le donne nel post gravidanza? Crede ci sia pure con collegamento con la depressione post partum?

 

R: Il vero paradosso della medicalizzazione è che se da un lato troviamo un eccesso di: controlli, esami
ed ecografie (impropri perché i Livelli Essenziali di Assistenza parlano chiaro sul numero e tipologia
di esami da eseguire in gravidanza) dall’altro troviamo il vuoto assistenziale totale dopo la nascita
del bebè. Come se l’unica cosa importante fosse il risultato: la nascita. Tutto quello che si nasconde dietro il mondo della donna che ha messo al mondo una creatura non è cosi importante come l’evento in sé.
Invece sappiamo benissimo che uno dei periodi della vita a maggior rischio per la depressione è
rappresentato dalla gravidanza e dal post partum. Studi epidemiologici condotti in nazioni e culture diverse evidenziano che la depressione post partum colpisce, con diversi livelli di gravità, dal 7 al 12% delle neomamme ed esordisce generalmente tra la 6ª e la 12ª settimana dopo la nascita del figlio, con episodi che durano tipicamente da 2 a 6 mesi. La donna si sente triste senza motivo, irritabile, facile al pianto, non all’altezza nei confronti degli impegni che la attendono. (fonte ministero della salute)
Dal momento che la depressione è un disturbo prevenibile, diventa importante implementare i servizi e garantire il coinvolgimento dell’intera comunità. Dobbiamo puntare fin dalla gravidanza all’empowerment della donna e accompagnarla con appropriatezza in ogni fase della genitorialità, così facendo evitiamo che sintomi non riconosciuti e trattati, interferiscano nel rapporto con il suo bambino e con l’attaccamento, elementi capaci di prevenire le conseguenze negative a lungo termine sullo sviluppo cognitivo, sociale ed emotivo del
bambino.

 

D: Le donne possono rivolgersi anche ad un’ostetrica libera professionista per essere guidate verso la libera scelta dell’aborto?

 

R: È possibile rivolgersi all’ostetrica libera professionista per un counseling iniziale, dove l’ostetrica risponde alle domande o dubbi della donna, dando informazioni in merito al sostegno socioeconomico (qualora si decidesse di portare avanti la gravidanza), questo sarà svolto sulla base di una griglia di informazioni utilizzata in modo flessibile dal professionista in modo da consentire un counselling attento alla sensibilità della donna e ai suoi bisogni. Se la donna conferma la richiesta di interruzione dovrà procedere alla valutazione clinica (visita ed eventuale ecografia) e al rilascio del certificato che però non rientra nelle competenze ostetriche bensì in quelle mediche.

 

D: Come funziona l’aborto in Italia?

 

R: In Italia la legge 194 del 1978, stabilisce le modalità e le condizioni di accesso alla procedura, tutela la donna e l’embrione. Ogni donna ha il diritto di richiedere l’interruzione di gravidanza, entro i primi novanta giorni, qualora la prosecuzione della stessa, il parto o la maternità comportassero un serio pericolo per la sua salute psico-fisica (in caso di sfavorevoli condizioni socio-economiche o familiari, previsioni di anomalie o malformazioni del concepito, ecc.. ). Una donna che desidera l’IVG può rivolgersi nella maggior parte dei consultori italiani, dove è possibile essere presi in carico dall’equipe di competenza (ostetrica, medico, psicologo) per essere accompagnati ad una scelta consapevole che crei anche una rete con l’ospedale di riferimento. Una volta fatto il primo colloquio verrà fatta una visita ed un’ecografia e successivamente rilasciato una copia del certificato (firmato anche dalla donna) che attesti lo stato di gravidanza e l’avvenuta
richiesta di IVG. Successivamente la donna sarà invitata a riflettere per sette giorni, obbligatori per legge, al termine dei quali potrà essere eseguita l’interruzione di gravidanza. Di prassi prima dell’intervento, è necessario effettuare un colloquio con il personale ospedaliero della struttura scelta, che assisterà la donna sia dal punto di vista clinico che organizzativo (informazioni in merito a pre-ricovero, data dell’intervento, decorso della degenza e dimissione). L’IVG può essere eseguita mediante procedure diverse, che tengono conto dell’epoca gestazionale e della salute della donna. L’interruzione farmacologica può essere eseguita entro sette settimane di gravidanza e prevede l’assunzione di due farmaci (RU486/mifepristone e misoprostolo) a distanza di 48 ore tra loro, uno causa la cessazione della vitalità dell’embrione, l’altro ne determina l’espulsione. Mentre l’interruzione chirurgica entro undici settimane e sei giorni, si tratta di un intervento effettuato in anestesia locale o generale e consiste nell’aspirazione del materiale embrionale e placentare dalla cavità uterina.

 

D: Gli stereotipi sulla salute femminile sono infiniti, associati ad una mancanza di educazione sessuale nelle scuole e nelle famiglie, sempre più ragazze e ragazzi, perdono il contatto con il proprio corpo e non sanno riconoscere gli umori e l’espressione dei propri funzionamenti. Quanto incide tutto ciò sulla prevenzione e quali sono i danni facilmente riscontrabili in un’età più giovane?

 

R: La sessualità è parte integrante della vita di ogni individuo. I giovani hanno il diritto di ricevere informazioni affidabili, scientificamente accurate e complete al riguardo. Sappiamo però anche per esperienza personale che l’educazione sessuale nelle scuole (oggi anche chiamata “educazione all’affettività”) è un argomento sensibile. Purtroppo dall’introduzione della stessa negli anni 70 è sempre stata al centro di dibattiti tra: genitori, istituzioni, religiosi, politici per stabilire cosa debba essere insegnato e a quale età. Ci si dimentica che l’obiettivo va ben oltre la biologia e la riproduzione ma l’educazione sessuale dovrebbe permettere ai bambini di conoscere il loro corpo e loro diritti e ricevere informazioni anche su argomenti come: parità di genere, orientamento sessuale, identità di genere, desiderio, rispetto, pratiche e su come costruire relazioni sane basate sul principio del consenso. Un percorso coerente e ben strutturato permetterebbe di limitare moltissimo quelli che sono atti di: violenza sessuale, violenza psicologica, abuso, episodi di omofobia, trasmissione di malattie sessualmente trasmissibili, gravidanze indesiderate e adeguato utilizzo dei contraccettivi.

 

D: Le rigiro la domanda chiedendole invece quanto gli stereotipi sulla salute femminile, incidano in maniera negativa in età più matura? È vero che non tutte le donne sanno come gestire le fasi della menopausa, della sessualità, della prevenzione medica (anche laddove non esista una problematica medica)?

 

R: La costruzione sociale della menopausa ha portato ad associare questo momento della vita della donna
ad un momento negativo. Se sei in menopausa allora sei vecchia, brutta, avvizzita, grassa, non desiderabile sessualmente. Spesso questi preconcetti sono proprio portati avanti dalle donne stesse.
La menopausa non si limita solo al cambiamento biologico ma comprende anche altri fattori come quelli psicologico e socio-ambientale. Per ogni donna l’abbassamento ormonale e quindi la fine del periodo fertile possono portare a sintomi più o meno evidenti che variano da donna a donna (vampate, irritabilità, sudorazioni notturne, ciclo irregolare) ed essere avvertiti o qualche tempo prima o poco prima, rispetto alla menopausa. In questo periodo di mutamenti sia corporei che ormonali, questi ultimi posso avere ripercussioni
sull’idratazione vaginale, sul peso, sul tono dell’umore, del comportamento e dell’ansia. Per affrontare questo momento delicato intanto è auspicabile rompere il tabù legato al concetto stesso della menopausa, iniziare a parlarne e a confrontarsi, inoltre è indicato dedicare maggior tempo a se stessi, conducendo una vita sociale soddisfacente, aiutandosi con attività fisica ed alle volte anche un supporto ostetrico e/o medico può essere importante per conoscere eventuali rischi/benefici di una terapia ormonale sostitutiva e valutare anche altre possibilità come i trattamenti naturali sempre affidandosi a personale esperto. Se interpretata in un’ottica fisiologica la menopausa può essere un’occasione per potersi liberare di tutte queste etichette e godere – proprio quando si è più adulte e mature – di una vita più libera e consapevole.

 

 

Giornalista ed imprenditrice, esperta in tematiche riguardanti gli stereotipi di genere nella medicina. Titolare del centro Io Calabria e Direttrice di Io Calabria Magazine