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Di cosa parliamo quando associamo alla violenza psicologica il victim blaming?

L a violenza psicologica è una vera e propria forma di maltrattamento che si esprime in un meccanismo di sopraffazione. Critiche costanti, insulti, prese in giro solo allo scopo di sminuire la persona che si ha di fronte. Una forma di abuso che spesso non si riconosce subito. Perché si ha abbastanza interiorizzato che la “vera violenza” è quella che lascia segni e lividi”. Quando si parla di violenza all’interno delle relazioni ad esempio, automaticamente pensiamo a forme di aggressione fisica o sessuale. In realtà la violenza può presentarsi in varie forme: offese, critiche, accuse, mancanze di rispetto, svalutazioni, menzogne, ricatti e così via. Sono queste alcune delle forme con cui si manifesta la violenza psicologica. Questo genera in chi subisce violenza psicologica, una costante messa in discussione della propria autostima e della percezione reale di sé e dei fatti. Questo processo farà sì che l’attenzione – o meglio ancora la colpa e la messa in discussione – si sposterà non su chi fa violenza ma su chi la subisce.

 

Che cos’è il victim blaming e cosa c’entra con la violenza psicologica?

 

Il victim blaming o colpevolizzazione della vittima si verifica quando le persone giudicano chi ha subito una violenza, un abuso o chi è semplicemente vittima di un’ingiustizia, accusandolo di esserne responsabile. È una tendenza riassumibile nella frase “se l’è cercata” o “se l’è meritato”. È un ragionamento che stravolge la visione degli eventi, spostando il focus dall’aggressore alla vittima. Paradossalmente nel victim blaming è la reputazione della vittima stessa a essere macchiata., in risposta a un episodio di violenza, la propensione ad attribuire la colpa dell’accaduto a quest’ultima, dubitando altresì della sua credibilità.
Il victim blaming, dunque, si potrebbe definire come una vera e propria tecnica manipolativa adottata dal vero colpevole: in questo modo la vittima si convince di essere lei stessa la causa della molestia subita.

 

Victim blamig e sessismo

 

La colpevolizzazione della vittima nasce, soprattutto per quanto riguarda le donne, da ragionamenti estremamente maschilisti e patriarcali secondo cui queste ultime non sono necessariamente prive di colpe; al contrario hanno in qualche modo acconsentito alla violenza attraverso le parole, l’abbigliamento o presunti atteggiamenti provocatori ed espliciti che l’aggressore ha, di conseguenza, interpretato come un permesso. Nel 1999, in Italia, la Corte di Cassazione ha negato una violenza sessuale perché la vittima indossava un paio di jeans. Ha poi giustificato questa decisione affermando che secondo un “dato di comune esperienza” non sarebbe possibile togliere i jeans, nemmeno in parte, ad un’altra persona senza la sua attiva collaborazione. In questa “sentenza dei jeans” (nome con cui viene ricordata oggi), viene quindi ritenuto che tra i due ci fosse stato un rapporto sessuale consenziente.
Più recentemente, sempre in Italia nel luglio 2018, in merito a uno stupro di gruppo, la Corte di Cassazione ha stabilito che non fosse lecito aggiungere l’aggravante del ricorso a sostanze alcoliche e stupefacenti nell’accusa, in quanto la vittima le avrebbe assunte volontariamente.
Nel novembre 2018, in Irlanda, un ragazzo accusato di stupro viene assolto in quanto la vittima indossava un perizoma. È chiaro, quindi, come ciascuna di queste sentenze abbia palesemente fatto passare il messaggio che fosse stata la vittima, in seguito alle proprie azioni, a legittimare la violenza subita, sottintendendo inoltre che si fosse voluta mettere di proposito in quella situazione. Ci si focalizza sui pensieri e sulle intenzioni piuttosto che sui fatti, che spesso vengono considerati più rilevanti dell’accaduto in sé.
Il Victim Blaming quindi è un fenomeno che serpeggia spesso nella collettività di fronte a casi di stupro e a quelli di violenza domestica ma anche, per citare un ulteriore e più recente filone di reati, in caso di revenge porn. Ossia di diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti. Come il caso noto alle cronache della maestra piemontse, “licenziata” a seguito della diffusione di un suo video intimo da parte dell’ex fidanzato.

 

Cos’è il revenge porn?

 

Con la locuzione “revenge porn” si intende la condivisione pubblica di immagini o video sessualmente espliciti attraverso i canali digitali, senza il consenso di uno o più protagonisti. In Italia la legge contro il revenge porn è entrata in vigore il 9 agosto 2019, con il titolo di “Codice Rosso”. Questa legge, introducendo nuove disposizioni per la tutela contro la violenza domestica e di genere, prevede sanzioni precise per combattere il fenomeno, stabilendo all’art. 10 che “chiunque, dopo averli realizzati o sottratti, invia, consegna, cede, pubblica o diffonde immagini o video a contenuto sessualmente esplicito, destinati a rimanere privati, senza il consenso delle persone rappresentate, è punito con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da euro 5.000 a euro 15.000. La stessa pena si applica a chi, avendo ricevuto o comunque acquisito le immagini o i video di cui al primo comma, li invia, consegna, cede, pubblica o diffonde senza il consenso delle persone rappresentate al fine di recare loro danno.
Come riflette sul suo libro “Ne uccide più la lingua” Valeria Fonte sostiene che si tratta di un fenomeno le cui dinamiche di potere sono sistemiche, in quanto la sessualità viene messa alla gogna, così come i suoi attori, che diventano ricattabili e punibili per aver creato video espliciti. Il fenomeno si consuma sulle piattaforme online e tutte le esperienze delle vittime di condivisione non consensuale di materiale sessuale sono accomunate da un denominatore preciso: la gogna mediatica. Il linguaggio, insieme con la condivisione a reticolo dei contenuti, diventa il primo strumento di reazione al fenomeno. Risulta interessante, da questa idea di ricerca, comprendere il ruolo dello stesso nel fenomeno del “victim blaming” nei commenti online sui social network.

 

“Le vere violenze sono altre”

 

Questo modo di pensare, questo marginalizzare, questo sminuire sistematicamente le discussioni ritenute di minore importanza, è un modo per non affrontare mai il problema. Per renderlo ridicolo e non mettere in discussione un modo di fare che permette di manipolare una gran parte di persone.
Esempio: Se dichiari di aver subito una molestia verbale, allora ti verrà ricordato che mica sei stato preso a sberle! Potevi ribattere.
La scarsa capacità di interpretare realtà complesse, si denota anche (o soprattutto) quando si tratta di violenza domestica. Alla notizia dell’ennesima donna malmenata o uccisa dal marito/compagno/fidanzato/ex, non mancano le domande inopportune “perché non l’ha mai denunciato? O non l’ha lasciato prima?”
Spesso questa retorica spinge sempre più vittime ad autocolpevolizzarsi per trovare una giustificazione al comportamento violento della persona che amano e da cui si illudono di essere amate, arrivando a sopportare l’insopportabile, spesso fino alla morte.

 

 

Giornalista, direttirice e fondatrice di Io Calabria Magazine e Io Calabria Cosenza. Da sempre ho esplorato, indagato e lavorato con il "femminile" nelle sue svariate espressioni di vita. Culturali, di genere, imprenditoriali.