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Diritto alla salute: disparità e discriminazioni di genere in ambito sanitario

Anche se da alcuni anni il numero di mediche sta aumentando in tutto il mondo – pur comunque non raggiungendo ancora quello dei medici – per secoli e fino a non troppo tempo fa la professione era ad appannaggio maschile e questo non ha determinato solo un gap lavorativo tra i sessi ma anche in termini di salute.
Fin dall’antichità le scuole di medicina sono sempre state frequentate solo da uomini, che parlavano tra di loro, sperimentando teorie e studiando reazioni di farmaci e cure su corpi maschili, divenuti quindi il parametro di ogni aspetto legato alla sanità. Peccato che uomini e donne siano biologicamente diversi e che tra i generi esistano differenze sostanziali nell’insorgenza, progressione e manifestazione clinica delle malattie, oltre che nella risposta e negli eventi avversi associati ai trattamenti terapeutici. Anche l’accesso alle cure presenta spesso forti diseguaglianze legate al genere ma per tantissimo tempo di tutto ciò non ci si è occupati e si è continuato a trattare la materia come universale, esponendo le donne a molti più rischi per la salute, oltre che a pratiche non idonee e a volte umilianti, perché pensate, strutturate e concepite da menti maschili.

 

 

Cos’è la medicina di genere e perché è così importante?

 

 

Solo negli anni Novanta si è iniziato a parlare di medicina di genere, che l’Organizzazione mondiale della sanità definisce “lo studio dell’influenza delle differenze biologiche (definite dal sesso) e socio-economiche e culturali (definite dal genere) sullo stato di salute e di malattia di ogni persona”.
La prima ad usare questo termine fu la cardiologa Bernardine Healy nel 1991, in un articolo pubblicato sul New England Journal Medicine nel quale descriveva la discriminazione delle donne nella gestione delle malattie cardiovascolari, che le colpiscono circa tre volte più di tutti i tumori femminili messi insieme.
Le donne muoiono di più di infarto (43% rispetto al 38% degli uomini, dati della Società Italiana per la prevenzione cardiovascolare) e il motivo è anche riconducibile al fatto che questo evento si presenta spesso nei soggetti femminili con sintomi sfumati o diversi da quelli noti (che interessano però solo gli uomini, come il dolore al braccio), che non venendo sempre riconosciuti portano a diagnosi tardive e a volte errate.
Ma non finisce qui, le donne infatti consumano più farmaci, sono più soggette a reazioni avverse – anche perché il metabolismo dei farmaci varia nei due sessi e le donne sono per secoli state esclude dalle sperimentazioni – e sono in generale trattate in modo non paritario in termini di salute, al punto che nonostante vivano mediamente di più degli uomini, l’aspettativa di “vita sana” tra i due generi si equivale. Spostando l’attenzione dalla pratica clinica alle strumentazioni necessarie per attuarla la situazione non migliora, visto che tutti o quasi i dispositivi sono stati – ancora una volta – pensati e realizzati da maschi. Gli esempi che si possono fare sono tantissimi e sono stati portati alla luce da una review condotta da Ilaria Campesi, Flavia Franconi e Pier Andrea Serra dell’Università di Sassari e pubblicata sulla rivista Life. Si va dal pacemaker, dalle dimensioni spesso troppo grandi per il torace femminile e che quindi può provocare più dolore o danni; agli stent, divaricatori metallici che vengono inseriti nei vasi per agevolare il flusso del sangue, e progettati all’origine senza tenere conto che le arterie coronarie delle donne sono più piccole di quelle degli uomini. La lista è lunga: anche i defibrillatori, ad esempio, non sembrano essere efficaci allo stesso modo per entrambi i generi, così come le tecniche di rianimazione cardiache manuali universali e i dispositivi di protezione individuale, disegnati per proteggere un corpo maschile.

 

 

Consenso, rispetto, cura

 

Come immaginabile, le criticità investono in modo particolarmente rilevante la branchia della medicina che si occupa di patologie e problematiche femminili, relegate a fanalino di coda per interesse scientifico ed investimenti economici, e i cui professionisti sono ancora oggi molto spesso condizionati da bias di genere, primo tra tutti quello secondo il quale le donne sopporterebbero meno degli uomini il dolore e tenderebbero a esagerare. Si spiega in buona parte in questo modo la sottovalutazione e il ritardo nella diagnosi di patologie come l’endometriosi, la fibromialgia o le disfunzioni del pavimento pelvico, che a volte arriva anche a 5-6 anni dalla comparsa del primo sintomo e che nel frattempo costringe le persone a vivere con dolore cronico, difficoltà o impossibilità di avere rapporti sessuali, colpevolizzazione – “è tutto nella tua testa”, “fai un figlio e vedrai che ti passa”, “rilassati quando fai sesso”, stigma sociale e vergogna, perfino nel recarsi da uno specialista per effettuare una visita.
Lo studio ginecologico, ad esempio, non sempre è strutturato come un luogo amico, a causa a volte dell’atteggiamento colpevolizzante o indagatorio del professionista o della professionista ma anche delle strumentazioni usate e delle modalità in cui avviene la visita.

 

La Dott.ssa Ostetrica Teresa Mastrota che opera presso il centro Io Calabria spiega che proprio perché «inserire lo speculum, fare un tampone, usare le dita o una sonda vaginale, possono rappresentare per la paziente una fonte di stress e ansia, oltre che dolore se inseriti con fretta e in silenzio, l’operatrice sanitaria è tenuta ad anticipare ogni mossa, spiegando cosa avverrà e facendo attenzione ad eseguire ogni test diagnostico solo avendo ottenuto il consenso. Per questo motivo ad esempio, abbiamo deciso da lo Calabria di prenderci più di un’ora di tempo per eseguire una prima visita presso il nostro ambulatorio. Per una prima valutazione pelvica anche quasi due ore. Pensarsi, raccontarsi, esistere come paziente, sono i primi passi per una guarigione a lungo termine».

La visita ginecologica, comprensiva pure di valutazione pelvica, deve rappresentare uno spazio sicuro per chi si sottopone alla prestazione sanitaria e per questo tutto deve avvenire con calma, senza fretta, rispettando i tempi della paziente e assicurandosi di avere sempre il suo consenso per ogni azione compiuta.

 

 

Medicina di genere in Italia

 

Un fatto questo per nulla scontato, come si evince spostando l’attenzione dalla situazione globale a quella strettamente italiana.
Nonostante il nostro Paese nel 2019 sia stato il primo a livello europeo ad approvare, tramite decreto attuativo della Legge 3/2018, un piano per l’applicazione e la diffusione della medicina di genere sul territorio nazionale, che prevede attività di divulgazione sul tema, il sostegno alla ricerca e l’istituzione di un Osservatorio dell’ISS, le criticità sono ancora tante, soprattutto per quanto riguarda l’accesso alle cure ma non solo. Secondo una ricerca di Federanziani del 2022, ad esempio, il 71% dei caregiver familiari in Italia è composto da donne, che sobbarcandosi per anni la maggior parte del lavoro di cura ne pagano le conseguenze in termini di condizioni di salute, fisica e mentale, soprattutto in età avanzata.
Il 24,7% delle donne anziane, infatti, ha gravi limitazioni nelle attività quotidiane e il 48,1% ha tre o più malattie croniche, contro il 18% e il 33,7% degli uomini. Replicando il dato mondiale, anche le italiane dunque vivono di più ma di fatto stanno peggio, anche e soprattutto perché la tendenza ad ammalarsi maggiormente di alcune patologie non è supportata da una presa in carico efficiente, né da idonei finanziamenti pubblici.
Un altro aspetto fondamentale che limita l’accesso alle cure per donne è la parità salariale all’interno della coppia. Spesso le donne, soprattutto al Sud, non hanno autonomia finanziaria e possibilità di accedere ai trasporti pubblici (per carenza di infrastrutture) per questo rimandano visite di prevenzione o interventi non convenzionati dal SSN.
Inoltre a pesare negativamente sulla qualità della salute femminile in Italia anche l’aumento dell’Iva sugli assorbenti e sui presidi sanitari necessari durante le mestruazioni, non solo assorbenti, ma anche integratori, cure per la menopausa, l’atrofia vulvovaginale o percorsi riabilitativi per l’incontinenza urinaria, diventati per molte difficili da acquistare; o le difficoltà sempre più elevate di accedere ad un’interruzione volontaria di gravidanza. Aspetto quest’ultimo, legato all’alto numero di obiettori di coscienza che in alcuni casi costringe le donne a lunghe trasferte per esercitare un diritto, e la recente decisione di permettere l’ingresso di gruppi antiabortisti nelle strutture sanitarie pubbliche.

Altro aspetto che la medicina di genere dovrebbe evidenziare è la differenza di trattamento sanitario che le persone transgender affrontano perché non hanno un accesso equo alle cure e vengono private continuamente da quelli che sono dei loro diritti. Le discriminazioni di genere non intervengono sulle vite delle persone come variabili indipendenti ma più spesso in combinazione con altri fattori sociali (età, status socio-economico) e forme di oppressione. La sovrapposizione fra più identità, può amplificare le diseguaglianze: una donna nera, per esempio, può subire discriminazioni aggiuntive rispetto a una donna bianca, così come una donna transgender rispetto a una cisgender, o ancora, una donna migrante, grassa, povera, anziana.

 

Di medicina di genere ne ha scritto anche Alessandra Vescio -ed evidenzia in La salute è un diritto di genere edito da People – come nel panorama medico-sanitario, forme di razzismo sono senz’altro visibili nei confronti di pazienti: il cosiddetto “pregiudizio clinico”, ad esempio, associa ai corpi neri patologie specifiche (malattie veneree e infettive, per esempio), una maggiore resistenza al dolore e, nel caso delle donne, le ipersessualizza e mascolinizza. Anche il personale sanitario nero non è esente da aggressioni verbali e/o fisiche, rifiuto da parte di pazienti e pregiudizi che intersecano gerarchie professionali, misoginia e razzializzazione. A strutturare gerarchie sociali dentro e fuori il contesto medico-sanitario sono anche l’identità di genere (a svantaggio delle persone transgender e non binarie), il peso corporeo (con una marcata stigmatizzazione delle persone, in particolare donne, grasse), i disturbi mentali e le neurodivergenze (tra cui l’autismo, che presenta criteri diagnostici tarati sulla popolazione maschile e, inoltre, non considera la dimensione culturale che spinge bambine e ragazze al masking dei propri tratti non conformi, ritardando ulteriormente la diagnosi). Il “vuoto di conoscenza” dei corpi e delle esperienze di queste e altre minoranze, nonché la traduzione di alcune caratteristiche in identità totali (tali per cui la persona è, davanti allo sguardo medico, solo “una persona grassa”, “una persona disabile” o “una persona in transizione”, cui tutti gli altri aspetti della salute sono condotti e ridotti), implicano conseguenze rischiose per la salute e talvolta per la vita, tali da rendere non più posticipabile un ripensamento dei nostri sistemi di cura.

Scrittrice compulsiva, ha iniziato a muovere i primi passi nel giornalismo occupandosi di cronaca e politica locale, per poi passare a collaborare con diverse testate nazionali, approfondendo soprattutto tematiche riguardanti femminismo, uguaglianza di genere e diritti. Nel 2020 ha pubblicato il libro Libertà condizionata sul diritto all’aborto in Italia dall’entrata in vigore delle legge 194 ad oggi; e nel 2021 Non siete Stato voi, che indaga le violenze da parte delle forze dell’Ordine, entrambi editi dalla casa editrice People. Femminista ultra convinta e appassionata di arte e make-up, non uscirebbe mai senza rossetto.