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Perché gli uomini dovrebbero finalmente mettersi in discussione? Ne abbiamo parlato con lo scrittore e filosofo femminista Lorenzo Gasparrini

Q uando si parla di violenza di genere molti uomini si sentono tirati in causa collettivamente, ma se in alcuni una presa di coscienza inizia a formarsi, in altri resiste fortissima la tentazione di porsi fuori dal dibattito e trincerarsi dietro al classico “not all man”, seguito non di rado da argomentazioni che accumunano la violenza maschile sulle donne a quella che anche gli uomini nella loro quotidianità subirebbero.
Tuttavia, mettere sullo stesso piano le vicende, unendo in un unico calderone ogni forma di violenza in quanto “sempre da condannare qualunque essa sia”, non solo livella verso il basso il dibattito, ma impronta la narrazioni su basi sbagliate, che portano verso una direzione opposta a quella della risoluzione dei problemi e, prima ancora, della loro comprensione.
Ne abbiamo parlato con lo scrittore e filosofo femminista Lorenzo Gasparrini.

 

 

Molti uomini lamentano di non avere voce in capitolo sulla violenza di genere, che la narrazione sul tema sia a senso unico e che non si parli abbastanza di quella che anche loro subirebbero, è davvero così?

Ovviamente no. Purtroppo però la maggior parte ha un’idea sbagliata di violenza di genere e tende a valutarla secondo un concetto simmetrico. Dire “le donne vengono stuprate o picchiate ma anche gli uomini” è il modo sbagliato per capire di che cosa si sta parlando perché è vero che ci sono uomini vittime di violenze da parte delle donne ma non si tratta di un problema sistemico ma episodico. Mentre da una parte c’è una cultura che racconta a un genere che determinati gesti sono possibili e ammissibili all’interno di un rapporto affettivo, dall’altra non succede e quando certi episodi accadono hanno un’origine completamente diversa.
Per questo sostengo che il termine misandria (sentimento di ostilità e disprezzo verso il genere maschile) sia scorretto se usato come simmetrico a misoginia (sentimento di ostilità e disprezzo verso il genere femminile). La misoginia è un problema sistemico, che ci portiamo dietro da secoli, la misandria no. Esistono donne che detestano gli uomini, ma non c’è un intero apparato culturale che da secoli dice che è accettabile farlo.

 

Eppure molti uomini continuano a definirsi vittime e ad accusare sempre e solo le donne dei loro problemi

Il motivo è sempre la cultura di fondo della società nella quale viviamo. Nella stragrande maggioranza dei casi gli uomini la violenza di genere la ricevono da altri uomini e in forme che non riconoscono. Quanti sul lavoro o nello studio vengono rimproverati di non metterci grinta o di non riuscire a svolgere un determinato compito perché non abbastanza maschi? Questa si chiama violenza di genere perché viene imputata una negligenza che magari esiste ma la si collega a una caratteristica di genere che non c’entra niente. Se però non la si riconosce la si subisce senza rendersene conto.
E anche quando sono le donne ad agire secondo certi schemi, è quasi sempre perché ricalcano modi di fare estremamente maschili e patriarcali, che probabilmente sono quelli che hanno permesso loro di arrivare in posizioni di potere. Se l’intero genere maschile non si racconta le cose come stanno continueremo ad assistere a dibattiti inutili e sfoghi che non hanno alcuna possibilità di essere ascoltati, come quelli di uomini che si chiedono perché non possono rivolgersi a un centro antiviolenza. La risposta è molto semplice: perché hanno altri problemi e servono competenze diverse per trattarli. Questo vale non solo per chi la violenza la subisce ma anche per chi la compie.

 

Inizia ad esserci una presa di coscienza da parte degli uomini in merito alle loro responsabilità collettive o non sta cambiando nulla?

Sì assolutamente, lo riscontro ogni volta che vado a parlare nelle scuole o nelle aziende. La volontà di cambiare in molti casi c’è ma per scardinare una cultura che ci accompagna da millenni serve lavorare in modo strutturato e non è semplice perché le persone competenti in questa materia sono ancora troppo poche e faticano a farsi sentire.
Per modificare abitudini sociali radicate, gli uomini devono ascoltare esempi differenti, portarli nelle loro vite e tornare periodicamente a discuterne per capire i progressi e le difficoltà affrontate. Esistono i centri per uomini maltrattanti e li reputo un’ottima cosa ma arrivano tardi, si occupano del dopo. E prima? Servirebbero luoghi in cui andare ad informarsi, decostruire la propria mascolinità tossica e chiedere se un determinato gesto è violento, ma ancora non ci sono perché gli uomini non si battono per averli, anzi pretendono che i servizi che aiutano le donne forniscano assistenza anche a loro. La scuola in parte ci prova, in molte si portano avanti progetti validissimi ma non essendoci programmi strutturati a livello nazionale restano azioni circoscritte. Spesso si ottengono ottimi risultati in un istituto ma in un altro che dista 200 metri non si fa nulla. La richiesta per queste cose c’è, è che non riusciamo a soddisfarla.

 

Le nuove generazioni se lo pongono il problema?

Certo, in loro non ho mai trovato disinteresse ma propensione al dialogo. A volte hanno un piglio polemico ma va benissimo perché su quello si può lavorare, mentre l’indifferenza che di solito si trova nelle persone più adulte è difficile da scardinare. Quando mostri loro che esistono strumenti differenti da quelli che conoscono provano a usarli, ma bisogna andare a darglieli perché non li trovano a scuola, nella musica e nemmeno in famiglia. Nella discussione mediatica si eccede nel dare la colpa ai genitori di determinati atteggiamenti dei figli ma spesso sono i primi a non avere gli strumenti per vedere certe cose e di conseguenza insegnarle. Senza contare che la famiglia è solo uno degli agenti educativi, ci sono anche la scuola, la musica, i media, il cinema e lo sport a contribuire alla formazione dei giovani. Per imprimere un cambiamento nella società inoltre bisogna capire che molte forme di potere, oppressione e disparità si trasformano nel tempo ed è necessario intercettarle nei modi in cui si esprimono oggi, sapendo che uno strumento di comunicazione che va bene per un trentenne o quarantenne non funziona per un ventenne.
Ma bisogna anche considerare che ci sono forme che si credevano sepolte e che invece resistono, come l’idea che la gelosia sia sinonimo di vero sentimento. Ci dobbiamo chiedere perché anche molte ragazze, come dimostrato i numerosi video su questo tema che girano sui social, ancora pensano che un amore passionale e possessivo sia giusto quando invece è spesso la pre condizione di una situazione molto problematica.

 

Esiste un gruppo Facebook, Uomini vittime di violenza fisica, psicologica e giudiziaria, in cui le donne sono considerate fonte di ogni male, soprattutto in sede di separazione, quando vengono accusate dagli uomini di usurparne il patrimonio tramite gli alimenti. Perché nessuno di loro si pone mai il problema di come sia stato gestito il matrimonio, prima ancora del divorzio?

Come dico spesso il problema non è la legge sul divorzio ma quella sul matrimonio. Il giudice che sentenzia che un uomo debba continuare ad occuparsi interamente del mantenimento della famiglia prende una decisione molto patriarcale perché per la società il ruolo del maschio è quello, e non lo perde neanche quando il matrimonio finisce. Secondo molti uomini il fatto che una donna benefici dell’assegno di mantenimento è una vittoria delle femministe cattive ma non c’è nulla di femminista in questo. Il femminismo si fonda sull’indipendenza economica, che però non può essere garantita se attorno c’è una struttura sociale e culturale che continua a scoraggiare le donne a lavorare e ad avere un conto corrente personale. Se prima ti andava bene che tua moglie non lavorasse, poi non ti puoi lamentare che una volta separati non riesca a badare immediatamente a se stessa.

 

Perché è così difficile per molti fare questo ragionamento?

La cultura nella quale siamo tutti immersi è ancora una volta centrale. Ci sono migliaia di persone che credono che la terra sia piatta, sono stupide? No, è che quella convinzione si incastra perfettamente nell’idea complessiva che hanno di come funziona l’universo.Lo stesso vale per questo tema. Se tutta la tua idea di matrimonio è fatta in un determinato modo non riesci ad inquadrare correttamente una separazione perché le conseguenze di quell’evento si incastrano nella visione di famiglia e società che ti eri costruito e che dovresti mettere in discussione completamente per avere una comprensione davvero reale di ciò che sta accadendo.

 

Per non indignarci solo per il fatto di cronaca del momento e dimenticarcene l’attimo dopo cosa possiamo fare?

Smettere di non vedere che quel fatto di cronaca nasce da un centinaio di altri micro eventi pregressi. La violenza non è mai metereologica o improvvisa ma arriva sempre dopo un percorso molto lungo composto da una serie di azioni che se non si intercettano possono portare ad epiloghi tragici. Eppure la raccontiamo sempre come episodica, parlando di bravi ragazzi, onesti lavoratori, mariti integerrimi, ma questa narrazione distorta impedisce a molte persone di acquisire quel minimo di consapevolezza necessaria per captare le avvisaglie.
Quante volte abbiamo visto una coppia per strada che si spintona e non abbiamo capito che quello era un problema sociale? Perché se vediamo una persona spaccare il vetro di una macchina interveniamo e se vediamo un ragazzo e una ragazza che litigano no? Perché abbiamo introiettato l’idea che è un problema loro e che non riguarda la collettività.

 

È giusto preoccuparsi di gruppi Facebook o Telegram in cui gli uomini vanno a riversare odio verso le donne o sono da derubricare come una minoranza che non deve essere considerata?

È giusto perché sono elementi culturali disturbanti che vanno contrastati, ma se si pensa di farlo attraverso delle leggi non si andrà lontano. Solo aumentando la consapevolezza sociale quei gruppi cominceranno a sgretolarsi, a sentirsi meno sicuri, a contare su meno appoggi e a vedere che i discorsi che portano avanti non funzionano più.
Deve imporsi un punto di vista alternativo ed efficace che in questo momento non c’è e che dovrebbe partire proprio dagli uomini, accusati di stare zitti. Molti si tirano fuori dal dibattito affermando di non essere violenti e di non fare nulla ma il punto è proprio non fare niente. Rimanere inerti significa diventare parte del problema perché si potrebbe dare un esempio diverso, far circolare un’idea alternativa, e non lo si fa.

 

Scrittrice compulsiva, ha iniziato a muovere i primi passi nel giornalismo occupandosi di cronaca e politica locale, per poi passare a collaborare con diverse testate nazionali, approfondendo soprattutto tematiche riguardanti femminismo, uguaglianza di genere e diritti. Nel 2020 ha pubblicato il libro Libertà condizionata sul diritto all’aborto in Italia dall’entrata in vigore delle legge 194 ad oggi; e nel 2021 Non siete Stato voi, che indaga le violenze da parte delle forze dell’Ordine, entrambi editi dalla casa editrice People. Femminista ultra convinta e appassionata di arte e make-up, non uscirebbe mai senza rossetto.