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Il Genere: tra stereotipi e pregiudizi

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Le disparità di genere sono una forma persistente di disuguaglianza in ogni Paese. La critica femminista e non solo, ha messo in evidenza, e cercato di contrastare, la narrazione classica della storia che attribuiva al soggetto maschile caratteri di universalità. Il genere diventa un concetto condiviso da molte studiose, diventando una necessaria lente di analisi in campi di ricerca differenti.

Negli ultimi anni, però, il termine “genere” è uscito dal solo ambito accademico, divenendo un termine utilizzato da tutti. Lo ritroviamo al centro di dibattiti politici, in ambienti scolastici, sulle prime pagine di giornali, ecc. Attorno al termine si è creata molta confusione, c’è chi parla addirittura della “teoria gender”, mostrandola e descrivendola come una sorta di complotto che mira a creare confusione soprattutto nell’identità dei bambini.

 

Differenze tra “genere” e “sesso”

 

Il termine “genere” viene introdotto per la prima volta nel 1975, dall’antropologa e femminista americana Gayle Rubin. Il genere, secondo la studiosa, sta ad indicare una divisione tra i sessi imposta socialmente. Il concetto di genere è ampiamente riconosciuto a livello accademico poiché consente una lettura diversa dei fenomeni sociali, tenendo conto di visioni del mondo, significati, comportamenti e prospettive di maschi e femmine, che di conseguenza creano quelle che definiamo disuguaglianze di genere. Negli ultimi tempi, tale termine viene utilizzato largamente a livello divulgativo, ma spesso non viene utilizzato nel modo più appropriato poiché si tende a confonderlo e sostituirlo al concetto di “sesso”, considerandoli sinonimi. È necessario sottolineare che il termine “genere” è diverso da quello di “sesso”, poiché quest’ultimo fa riferimento al fattore biologico, mentre il “genere” riguarda caratteristiche socialmente attribuite a maschi e a femmine.

Perciò se il “sesso” consente di classificare gli individui come maschi e femmine in base agli elementi anatomici, il “genere” è il processo attraverso il quale i soggetti apprendono dalla società, dalla cultura, come bisogna comportarsi in base al sesso di appartenenza.

Il genere ha permesso di sottolineare l’analisi sessuata della realtà, di far emergere le disuguaglianze tra maschi e femmine, normalizzando i ruoli sessualmente stabiliti. Ciò sta a significare che all’interno della società vi sono ruoli, ambiti, comportamenti divisi per uomini e per donne. La natura determina il sesso, ma è la società che attribuisce significato a questa distinzione, costruendo “cose da uomo” e “roba da donne”. Chi diventiamo come uomini e donne è in larga misura determinato dalle aspettative culturali e sociali.

 

Stereotipi e pregiudizi

 

Le caratteristiche attribuite al sesso di appartenenza, che poi definiscono atteggiamenti e comportamenti legati al genere, persistono nella nostra società attraverso stereotipi e pregiudizi.

I termini stereotipo e pregiudizio sono due concetti molto diversi ed è bene conoscere le differenze: lo stereotipo è l’immaginazione di un qualcosa che abbiamo nelle nostre menti, una costruzione sociale che ci portiamo dietro da sempre. Si tratta di un concetto astratto, che può essere sia negativo che positivo, concepito non per conoscenza diretta di un fatto, di una persona o di un gruppo sociale, quanto piuttosto in base a opinioni comuni che si sono create nel tempo.

Lo stereotipo è un’idea generalizzata che è diventata fissa a causa del suo utilizzo e della sua diffusione. Gli stereotipi mentali si tramandano di generazione in generazione e diventano pregiudizi. Il pregiudizio è una generalizzazione che però rispetto allo stereotipo è pieno di giudizio di valore, è un giudizio anticipato. Il pregiudizio è in generale un’idea negativa, in quanto è un’opinione o un atteggiamento verso gli altri che si basa unicamente sulla loro appartenenza di gruppo. Vi è la convinzione che quel gruppo o categoria possieda in maniera abbastanza omogenea tratti negativi. Un pensiero infatti diventa pregiudizio solo quando non cambia alla luce di nuove conoscenze, solo quando ci si ferma al giudizio che abbiamo inizialmente e non si va oltre.

Esempi: Non rivolgere la parola ad una persona di colore solo perché di colore —› pregiudizio (a sfondo razziale in quanto vi è l’appartenenza ad un gruppo)

I musulmani sono tutti terroristi—› stereotipo

Il pregiudizio è alla base di discriminazioni di razza, di genere, di classe, ecc. Per discriminazione si intende quel comportamento che porta ad un trattamento non paritario di una persona o di un gruppo di persone, in virtù della loro appartenenza ad un determinato gruppo sociale, classe sociale o categoria.

 

Cosa significa essere femmine e maschi? Esiste un modo giusto?

 

Le costruzioni sociali sono quell’insieme di immagini stereotipiate portate avanti da credenze culturali che ci vengono imposte, più o meno in maniera docile, sin dalla nascita. Tra i classici esempi troviamo: il rosa è il colore delle bambine e l’azzurro dei bambini; le bambine giocano con le bambole e i maschi con le macchinine; alle bambine viene regalato il bambolotto ai bambini le costruzioni, ecc. Genitori, parenti, amici, o comunque la società in generale, crea un percorso da seguire in base al sesso, si crea un’immagine standardizzata delle aspettative che la società ripone nel bambino o nella bambina. L’adesione rigida agli stereotipi di genere rivela conseguenze negative sia su un sesso che sull’altro. Quante volte si è sentito rivolgere ad un bambino mentre piange “non piangere come una femminuccia”? Questa costruzione stereotipata del maschio che deve mostrarsi sempre forte, perché l’emotività e la sensibilità sono cose da “femmine”, porta gli uomini, a crescere con degli standard sociali da rispettare, altrimenti “non sei abbastanza maschio”.

Facciamo un grave torto ai maschi educandoli come li educhiamo. Soffochiamo la loro umanità. Diamo alla virilità una definizione molto ristretta. La virilità è una gabbia piccola e rigida dentro cui rinchiudiamo i maschi. Insegniamo loro ad aver paura della paura, della debolezza, della vulnerabilità. Insegniamo loro a mascherare chi sono davvero, perché devono essere uomini duri”.(Chimamanda Ngozi Adichie)

Dalle donne invece ci si aspetta che siano dolci, servizievoli, maggiormente dedite alla famiglia. Viene insegnato alle bambine a fare le faccende domestiche, ad essere ambiziose ma non troppo, preparate a dover scegliere tra avere una carriera o mettere su famiglia. Ci si aspetta che una donna aspiri al matrimonio, ad avere figli, perché solo in tal caso una donna (a detta dei più) può dirsi completa.

 

Il linguaggio non è mai neutrale

 

In Italia questo filone di studi viene inaugurato dalla linguista Alma Sabatini a metà degli anni Ottanta, in due opere: Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana, uscito nel novembre 1986, e Il sessismo nella lingua italiana, pubblicato nell’aprile 1987. La lingua non può essere neutra perché racchiude una particolare rappresentazione del mondo e possiamo affermare che la lingua che parliamo e le pratiche sessiste che essa incorpora sono indicatori, se non addirittura responsabili, degli stereotipi di genere presenti nella società.

Sabatini parla di una falsa neutralità del maschile, che spaccia per universale ciò che è solo dell’uomo. L’autrice porta come esempi i termini usati per indicare le prime specie umane: l’Uomo di Pechino, l’Uomo di Cro-Magnon, l’Uomo di Neanderthal, ecc. In realtà il più delle volte i resti di ossa ritrovati non permettevano l’identificazione del sesso, ma chi può negare che l’immagine che abbiamo di queste specie sia maschile?

Un dibattito contemporaneo riguarda il fatto che nella lingua italiana mancano forme femminili per indicare cariche, professioni, mestieri e titoli. Non vi è dubbio che all’origine del problema vi è la netta divisione dei ruoli tra donne e uomini, e la preclusione di alcune carriere alle donne fino a tempi recentissimi, un esempio è la carriera diplomatica e la magistratura le quali sono state aperte alle donne solo nel 1963. La questione diventa però urgente quando le donne entrano in numero sempre crescente in tutti i campi del lavoro e della vita pubblica e accedono a carriere sempre più elevate, prima riservate solo agli uomini. Come definire una donna che svolge la professione di: architetto, assessore, avvocato, chirurgo, imbianchino, medico, muratore, senatore, sindaco, vigile, rettore? Potremmo anche dire “vigilessa”, “avvocatessa”, ma è solamente un’aggiunta a quello che è un qualcosa di maschile, come dice infatti Sabatini: “Tutte queste forme artificiose non fanno che ribadire il concetto che il maschile (genere) è il parametro, che dal maschile si forma il femminile (sempre derivativo) ed il femminile è quello che “manca”. Il principio base è sempre quello che il maschile (genere grammaticale) è superiore così come lo è il maschile (genere sociale) nella società”.

È necessario che il linguaggio cambi nel tempo proprio perché la società in cui viviamo sta cambiando, e se fino a non molto tempo fa la presenza delle donne era limitata in molti settori, oggi invece le donne sono presenti ed è bene sottolinearlo. Possiamo e dobbiamo dire che ci sono avvocate, ministre, sindache, assessore, perché chiamarle con il loro nome è giusto e necessario, in quanto diventa un’affermazione di esistenza.

 

Si può superare il binarismo di genere?

 

La strada dell’inclusività però è ancora lunga. Il binarismo di genere riconosce l’esistenza di due sole categorie, uomo e donna, a cui sono associati ruoli e caratteri specifici come detto in precedenza. Il superamento del binarismo implica la concezione del genere come un insieme di più possibilità. Infatti, coloro che non si identificano nelle categorie uomo-donna, ad esempio, possono riconoscersi come persone non binarie. Anche le persone transgender, ovvero coloro che hanno un’identità di genere diversa rispetto al sesso assegnato alla nascita, possono non rivedersi nel binarismo. Negli studi di genere e in certi ambiti della linguistica, ci si sta dunque interrogando su come costruire un linguaggio inclusivo che tenga conto di tutte le soggettività.

 

biobliografia

Lombardi L. , Società, culture e differenze di genere

Sartori F., Differenze e disuguaglianze di genere

Angela Petrungaro, classe 1994, ho conseguito la laurea triennale in Discipline Economiche e Sociali e la laurea magistrale in Scienze per la Cooperazione e lo Sviluppo presso l’Università della Calabria. Nel mio percorso universitario ho avuto modo di formarmi in diversi settori, dallo studio della Geopolitica, ai Fenomeni Migratori e in particolare ho potuto approfondire gli Studi di Genere. Ho svolto un tirocinio formativo presso ActionAid Italia, collaborando al progetto Youth For Love, incentrato al voler abbattere gli stereotipi di genere tra i giovani. Gli Studi di Genere mi hanno permesso di approfondire dinamiche che mi hanno sempre incuriosita sin da piccola: da questioni legate alla subordinazione delle donne, alla sessualità nel senso più ampio, all’accettazione e all’inclusione di ciò che viene considerato diverso dalla società.