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Albinismo: l’esperienza di Francesca

M i chiamo Francesca, classe 1997, e sono neolaureata in sociologia e scienze politiche e sociali.
Partendo dal presupposto femminista per cui “il personale è politico”, attraverso le mie esperienze biografiche ho iniziato ad occuparmi di persone e gruppi sociali marginalizzati e discriminati. Io sono albina e, se torno indietro con la memoria, ricordo l’attenzione morbosa degli altri rispetto al mio corpo e alla mia bianchezza. Per molte di quelle persone l’albinismo era solo l’assenza di melanina che rende esteticamente strana, il che per molti significa inevitabilmente brutta perché tutto ciò che è fuori dalla norma è brutto e tutto ciò che è brutto continua ad essere associato a qualcosa di intrinsecamente cattivo, e niente di più. Un conto è lo sguardo stigmatizzante della società, che ignora, altro conto dovrebbe essere quello dei medici ho sempre creduto.

Da sociologa, però, mi sono ritrovata ad analizzare il modo in cui gli specialisti mi hanno parlato dell’albinismo. Tra i medici che ho visitato, tutti mi hanno sempre detto due cose: tieni sotto controlla la vista (giustamente) e periodicamente fai delle visite dermatologiche. Ha senso: la mancanza di melanina interessa in modo immediato la salute degli occhi e della pelle, ma il discorso si chiudeva sempre su queste due dimensioni immediatamente visibili e riconoscibili, poiché diverse e molto più chiare rispetto alla media della popolazione. Certo, il loro sguardo si interessava alla mia salute e non al giudizio estetico, ma si fermava lì. Eravamo ancora incastrati in un rapporto paternalistico in cui io davo per scontato il rapporto fiduciario che mi legava ai medici e ai medici non interessava troppo ascoltarmi.

 

Ma l’albinismo riguarda solo la vista? In occasione dello scorso 13 aprile – giornata della consapevolezza sull’albinismo –  ne ho parlato con la dottoressa Valeria Marasco, biologa e nutrizionista.

 

L’albinismo, ci spiega la dottoressa Valeria Marasco, è una condizione genetica benigna definita ancora talvolta come malattia. Essa si presenta dalla nascita e non è degenerativa, non è infettiva, non è indice di nulla. Essa consiste nell’incapacità del corpo di produrre melanina (tipico pigmento castano-brunastro che tinge pelle, capelli e occhi). La melanina è uno scudo che la natura ha donato a molti animali, uomo compreso, per proteggersi dai raggi ultravioletti del sole, raggi notoriamente capaci di danneggiare il DNA. Ecco perché una sua mancanza provoca suscettibilità ad ustioni solari e danni all’epidermide anche gravi. Anche al livello oculare la melanina ha lo stesso ruolo: difendere gli occhi dal sole, che altrimenti può danneggiare le delicate strutture oculari fino anche a provocare la cecità. Ecco perché chi ha gli occhi azzurri (ma anche verdi o grigi) ha un’incidenza maggiore di sviluppare problematiche oculari derivanti dai raggi ultravioletti rispetto a chi ha gli occhi castani o neri. Gli UV provocano stress ossidativo, ustioni, danni al DNA e successivamente cancro. L’uomo si è evoluto nella culla della vita, l’Africa, dove la pelle fortemente pigmentata permetteva una protezione da questi pericoli. Con il tempo esso è emigrato verso il nord, andando però incontro a molti problemi di salute. Infatti, quella melanina che ci proteggeva dagli UV schermava troppo i raggi del sole in paesi con meno ore di luce e raggi solari meno perpendicolari alla terra. Le persone andavano così incontro a un forte deficit di vitamina D, essendo questa vitamina attivata proprio dalla luce solare. Fin dalla più tenera queste popolazioni presentavano complicanze ossee e maggiori probabilità di morte. Proprio in questa parte del cammino dell’evoluzione che comparse, casualmente, una mutazione genetica che diede alla pelle un colore più chiaro, atto ad assorbire i raggi solari in quantitativi tali da “attivare” la vitamina D in dosi sufficienti.

 

Albinismo e Vitamina D – la scarsa esposizione al sole ne limita l’assorbimento

 

«Le persone albine non producono nessuna traccia di melanina -prosegue la dott.ssa Valeria Marasco, biologa nutrizionista – la pelle è candida, gli occhi azzurri, i capelli biondo platino\bianchi. Il rischio maggiore per la loro salute è il cancro e la degenerazione oculare dovuti ai danni ossidativi prodotti dai raggi del sole. Quindi le linee guida internazionali per la gestione dell’albinismo prevedono creme solari con schermo fisico 50+ (il massimo, sempre!!), abiti con tessuti traspiranti ma coprenti, occhiali da sole specchiati e con schermo UV durante il giorno. Oltre ciò è intuibile che debbano evitare il sole diretto o le ore in cui esso è più forte. Se si seguono le linee guida ci saranno pochi danni da UV (evitarli del tutto è davvero complesso) ma a questo punto… come fanno queste persone a produrre vitamina D se devono evitare il sole, fonte principale di questa sostanza? Ecco il punto: non fanno! Le persone albine, infatti, vanno incontro ad una prevedibilissima mancanza di vitamina D (tra le altre cose) che si cronicizza nel corso della vita e che purtroppo viene raramente integrata dai medici, che sono il punto di riferimento principale per la salute della popolazione.
La vitamina D è stata chiamata così poiché essenziale per la vita, ma le conoscenze attuali classificano questa molecola come un ormone, capace di regolare la trascrizione del DNA, modificando l’espressione di una ricca moltitudine di geni con effetti pleiotropici. La pleiotropia consiste, in parole povere in un’attivazione di un singolo gene che però provoca molti effetti differenti a valle, visibili e no. È stata questa scoperta che ha aperto un mondo ai ricercatori che oggigiorno hanno correlato la vitamina D e la sua mancanza a molte patologie (spesso come cofattore). Questo perché essa regola non solo la mineralizzazione ossea, come quasi tutti sanno, ma modula anche il sistema immunitario. Bassi livelli di vitamina D sono correlati a una probabilità maggiore di patologie autoimmuni e\o a infezioni frequenti. Ma una ipovitaminosi porta anche a predisposizione a depressione, alterazioni cardiovascolari, osteoporosi, carie dentali frequenti e parodontiti, alterazioni nella gestione dell’insulina, etc. Soprattutto si ragiona poco sul ruolo del sistema immunitario nello sviluppo del cancro. Infatti, in pochi sanno che ognuno di noi ha una probabilità variabile di sviluppare il cancro nel corso della vita, ma molto spesso il nostro sistema immunitario riconosce tale alterazione eradicandola tempestivamente. Solo quando si accumulano tante mutazioni, tali da permettere alla cellula cancerosa di mimetizzarsi adeguatamente alle nostre sentinelle, la patologia si paleserà! Se c’è una mancanza di vitamina D, che regola il sistema immunitario, la probabilità che esso riconosca tempestivamente una cellula cancerosa cala drasticamente.
Alla luce di tali informazioni risulta palese come sia importante per tutti avere livelli decenti ti questa sostanza che può essere prodotta dal corpo esponendo la pelle alla luce solare (con le giuste precauzioni, servono compromessi) o tramite l’alimentazione. Ciò che complica questa situazione ulteriormente sono i polimorfismi del nostro corpo, cioè la variabilità nel nostro DNA che si ripercuote con un’unicità nella gestione\metabolizzazione\assimilazione etc di una determinata sostanza, come dicevo a inizio articolo noi siamo unici. Ecco perché delle analisi ematiche periodiche ci possono aiutare a fotografare la nostra “normalità” e la nostra risposta a un determinato approccio, nutrizionale o farmacologico, aiutando l’operatore sanitario specializzato a personalizzare il suo piano di azione.
La vitamina D alimentare, o ergocalciferolo, è una sostanza liposolubile, cioè che si discioglie nei grassi. Essa è presente negli esseri viventi esposti o cresciuti a contatto con la luce del sole, concentrandosi nella frazione lipidica. Quanto essa è presente nei cibi non è quindi così prevedibile come sembra, ma nel caso della carne spesso si concentra nelle frattaglie (oggigiorno scartate dalla maggior parte delle persone purtroppo), come fegato e reni ad esempio (organi deputati a trasformare la forma inattiva eccitata dagli UV in forma attiva). Anche nel caso dei pesci la vitamina D si concentra nel loro fegato e nelle carni è presente nei di pesci molto grassi, frutti di mare e bivalve. Inoltre, è presente anche, seppur in quota inferiore, in burro, panna, formaggi grassi, tuorlo d’uovo (ammesso che gli animali non abbiano a loro volta una mancanza di vitamina D a causa degli allevamenti privi di luce solare o surrogati della stessa). Si palesa la complessità nell’assumere una buona quota di vitamina D senza assumere lipidi di cattiva qualità che andrebbero successivamente danneggiare la salute dell’individuo. Nel mondo vegetale invece possiamo ritrovarlo principalmente nei funghi e, in quota nettamente minore, nelle alghe. Nonostante ciò, la quota alimentare della vitamina D contribuisce ad uno scarso 20% del fabbisogno giornaliero raccomandato, poiché l’80% dovrebbe essere quello derivante dall’esposizione al sole, necessitando in alcuni casi l’implementazione sotto forma di integratore.»

 

Essere una persona albina: la mia riflessione

 

Da quello che la dott.ssa Valeria Marasco ha illustrato alcune categorie di persone, tra cui quelle che presentano albinismo, hanno un’elevatissima probabilità, che rasenta la certezza, di avere una ipovitaminosi a carico della vitamina D severa.
Che poi, per giunta, la mancanza di vitamina D è solo la cosa più intuibile e prevedibile. La famosa punta dell’iceberg del problema. Sociologicamente mi chiedo perché si continua a parlare solo tenendo conto dei problemi alla vista o, al massimo alla pelle, e non degli effetti complessivi che l’assenza di melanina ha sulla salute fisica e mentale delle persone albine. Dipende forse dal modo in cui si decide di guardare all’albinismo? Se si cerca su Google una definizione di albinismo, tra i primi risultati appare il sito dell’Istituto Superiore di Sanità in cui si classifica l’albinismo come una malattia rara. Ma le persone albine sono malate? Da un punto di vista strettamente biologico l’albinismo potrebbe esser considerato una malattia. In termini tecnici, infatti, si usa questo termine per indicare un’alterazione anatomica e funzionale di uno o più organi. L’albinismo, almeno in tal senso, rientrerebbe nella suddetta classificazione in quanto è causato da un’alterazione genetica che impedisce al corpo di produrre melanina.

Il discorso, tuttavia, diventa più complesso se si guarda all’albinismo da un punto di vista sociale. Michel Foucault, nel saggio Nascita della clinica del 1963, parla della malattia come di una costruzione sociale. La definizione di cosa è una malattia, però, è il frutto del discorso medico costruito attorno ad essa: sono i medici, gli specialisti della salute, a definire che cos’è un corpo sano (normale) e che cos’è un corpo malato (anormale). Le persone albine, in quanto prive di melanina, rappresentano una deviazione dalla norma e in tal senso rientrano nella classificazione sociale di “persone malate”. Il discorso medico, che definisce cos’è una malattia, è problematico in quanto deriva da un rapporto diseguale di potere tra medico e paziente. Tra i due, nel modello tradizionale di medicina paternalistica, esiste un rapporto gerarchico e asimmetrico: il medico è il custode della conoscenza ed il paziente si affida totalmente a lui, ma ha un ruolo passivo nella relazione di cura.

All’asimmetria tra i due soggetti va aggiunto un ulteriore dato critico: per quanto specialista, anche il medico ha dei bias culturali. Ed è qui che si ritorna alla costruzione sociale: l’idea di malattia porta con sé degli stereotipi e la sua narrazione spesso ha un carattere stigmatizzante. Anche alle persone albine sono imposti degli stigmi. Nella rappresentazione letteraria o cinematografica, ad esempio, i rari personaggi albini presenti sono sempre caratterizzati come figure negative, basti pensare a Il codice da Vinci. La natura dell’associazione tra l’albinismo e qualcosa di cattivo, paradossalmente di oscuro, forse è da ricercare proprio nei corpi delle persone albine. Sono quei corpi a rappresentare una deviazione dall’idea diffusa di “normale pigmentazione”, in quei corpi candidi si esprime l’essenza sociale dell’idea di albinismo come malattia. Lo stigma sociale verso le persone albine ha portato a concentrarsi esclusivamente sull’anomalia estetica.