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25 aprile, le donne partigiane che fecero la storia

Il 25 aprile l’Italia festeggia la Liberazione dal nazifascismo, un giorno speciale per tutti noi. Le donne che fecero la Resistenza però, come accade di consueto nella narrazione dei fatti, sono sempre state un passo indietro nelle celebrazioni, perché di quegli anni, come di sempre il racconto dei fatti e degli eroi è stato maschile.

Le partigiane raccontate come comparse, donne crocerossine, buone a pedalare, smistare viveri, portare aiuti al parente in montagna, spinte dall’istinto materno più che da un ideale.
Invece la partecipazione femminile fu fondamentale per la lotta di Liberazione e rappresentò una delle prime occasioni in cui le donne parteciparono in prima fila, insieme agli uomini, a un momento cruciale della storia italiana. Lasciarono le cucine, la cura delle proprie famiglie, i posti di lavoro, si ribellarono e andarono a marciare per il pane e la libertà, incrociarono le braccia per protesta. In tante parteciparono con gli uomini alla lotta armata. Come Gina Galeotti Bianchi, fucilata a 32 anni, incinta di otto mesi mentre pedalando portava a Niguarda l’ordine di insurrezione. Era il 25 aprile di 75 anni fa, una lapide a Milano ricorda una delle tante, delle 35 mila donne che fecero la Resistenza, delle 70 mila che aderirono ai gruppi di difesa della donna. 1859 furono vittime di violenza e stupro, 4635 arrestate torturate condannate, 2750 deportate, 623 fucilate o cadute in azione.

 

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Ma la Resistenza non si fece solo coi fucili e le donne si fecero carico di aspetti cruciali di logistica, organizzazione e comunicazione. Si occuparono della stampa dei materiali di propaganda, dell’attacchinaggio dei manifesti, della distribuzione di volantini, dell’approntamento di documenti falsi. Prepararono i rifugi, i nascondigli, i luoghi di ricovero per i partigiani e spesso svolsero mansioni infermieristiche. Organizzarono il trasporto di munizioni, armi, esplosivi, procurarono gli indumenti. Si incaricarono del delicato passaggio delle informazioni divenendo un essenziale collegamento tra le brigate. Raccolsero medicinali e viveri, portarono avanti il fondamentale ruolo d’organizzazione e supporto all’azione dei e delle combattenti.

 

La Resistenza delle donne: la partecipazione femminile al movimento di Liberazione

 

La presenza femminile fu particolarmente alta nei Gruppi di Azione Partigiana (GAP) e nelle Squadre d’Azione Partigiana (SAP). Essenziale fu la loro funzione di collegamento: le messaggere superavano le linee tedesche per portare i messaggi da una parte all’altra dei fronti di combattimento. La staffetta era colei che curava i collegamenti tra le varie formazioni impegnate nella lotta armata permettendo la trasmissione di ordini, direttive, informazioni, la consegna di beni alimentari, medicine, armi, munizioni e stampa clandestina. Le donne erano meno soggette ai rastrellamenti e potevano circolare, a piedi o in bicicletta, senza destare eccessivi sospetti. L’organizzazione della Resistenza fece quindi strumentalmente leva su quegli stereotipi di genere che tendono a considerare la donna meno pericolosa dell’uomo. Ma in tante vennero torturate, stuprate e uccise, perché solitamente non giravano armate e quindi si trovavano nell’impossibilità materiale di difendersi.

Un’altra iniziativa importante prevalentemente gestita da donne fu il Soccorso rosso, una sorta di organizzazione di mutua assistenza con la funzione di reperire viveri o denaro per le famiglie dei militanti in difficoltà. Inoltre le donne organizzavano scioperi e agitazioni di carattere femminile: i Gruppi di difesa della donna e per l’assistenza ai Combattenti per la libertà (GDD) fondati a partire dal novembre del 1943, sono la prima grande e unitaria organizzazione femminile di matrice politica e non partitica.

 

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I gruppi erano aperti a tutte le donne di ogni ceto sociale, fede politica e religiosa, operavano nelle campagne, nelle città, nelle scuole, nelle fabbriche, negli uffici, supportavano le brigate partigiane organizzando le interruzioni delle vie di comunicazione e l’occupazione dei depositi alimentari. Erano agitatrici nei luoghi di lavoro e organizzavano una rete di soccorso e di assistenza per partigiani, sbandati, famiglie dei deportati, dei caduti e dei carcerati. I GDD, riconosciuti ufficialmente dal Comitato di liberazione dell’Alta Italia (CLNAI) contarono tra le proprie fila ben 70mila iscritte. In tutta quella parte dell’Italia che rimase sotto il dominio tedesco furono costituite formazioni militari femminili di Volontarie della Libertà che organizzavano atti di sabotaggio nelle fabbriche con l’obiettivo di bloccare la produzione destinata alla Germania e predisponevano squadre di infermiere e posti di pronto soccorso.

 

Il ruolo della partigiana tra le mura domestiche

 

Anche tra le pareti domestiche spesso le donne organizzavano dei veri propri laboratori per preparare indumenti ai partigiani, per raccogliere le armi e le munizioni, per recuperare e ridistribuire gli alimenti ai partigiani e alle loro famiglie o per nasconderli, e per la prima volta nella storia, la partecipazione alla guerra, si caratterizza come un’assunzione di responsabilità e di un ruolo autonomo.

La Resistenza, quindi, in Italia rappresentò una vera e propria rivoluzione sociale delle donne, riconosciute finalmente come cittadine e protagoniste, come portatrici di diritti civili e politici.

Rivoluzione già iniziata in parte nella prima Guerra Mondiale e durante i primi anni della Seconda, nel momento in cui moltissimi uomini partirono per il fronte. Oltre ad accudire la famiglia, le donne iniziarono sempre più a lavorare fuori casa e ad assumere spesso ruoli che erano sempre stati degli uomini. Ma soprattutto rivendicarono nuovi diritti, si presero spazi nella vita pubblica e sociale, assunsero un nuovo ruolo nella vita economica e lavorativa della società.

 

L’altra faccia della medaglia

 

Nonostante ciò, dopo la Liberazione tanti uomini e compagni di lotta tentarono di nuovo di rinchiudere le donne dentro le gabbie delle proprie case. L’oppressione nei loro confronti, al rientro in patria, fu in certi casi piuttosto violenta. Alcune vennero improvvisamente considerate delle poco di buono per aver combattuto accanto agli uomini nelle montagne, cancellate dalla memoria storica del paese, sminuite e obliate dalla Resistenza che esse stesse contribuirono a mettere in piedi. Partigiano era solo chi fece parte di formazioni regolarmente riconosciute per almeno tre mesi e chi condusse almeno tre azioni di sabotaggio o di guerra, e l’azione femminile difficilmente rientrò in questi parametri.

Proprio per questa Resistenza taciuta, per questo buio storico (che lentamente sta ritrovando la propria luce e importanza) vogliamo ricordare tutte quelle donne antifasciste che hanno combattuto coraggiosamente credendo strenuamente nel valore imprescindibile di ogni libertà.

 

 

fonte dati: pasionaria.it

Giornalista ed imprenditrice, esperta in tematiche riguardanti gli stereotipi di genere nella medicina. Titolare del centro Io Calabria e Direttrice di Io Calabria Magazine